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PREFAZIONE

Tra le innumerevoli e non lievi difficoltà che, al presente, caratterizzano la vita del nostro Paese, come - del resto - di qualsiasi altro, intense si manifestano pur sempre le più lodevoli attività culturali.Un posto privilegiato sembra occupare, fra queste, l'amore verso l'indagine storica, con particolare riguardo per le storie familiari e per quelle municipali. Può sembrare strano, ma è un dato di fatto inconfutabile nella realtà, che molte persone colte si volgono di preferenza alla ricerca delle proprie radici e di quelle del luogo che li vide nascere, mentre gli sforzi dei governi nazionali son tutti tesi ad operare proprio nella direzione opposta, al fine di dar vita ad organismi super-nazionali, che trascendono i più particolari interessi nazionalistici e campanilistici.
Il fenomeno si manifesta intenso anche in Puglia e nella Terra di Bari, ove, da parecchi decenni a questa parte, assai cospicua è stata la produzione di storie comunali e di monografie su aspetti peculiari della vita e delle culture locali, senza contare le innumerevoli ricerche genealogiche, che attirano l'attenzione di parecchi.
In quest'ottica viene oggi ad inquadrarsi un lavoro sulla ridente cittadina di Noicàttaro, che la passione del caro e buon amico Giacomo Settanni offre innanzitutto ai Nojani, come contributo alla conoscenza del loro passato, e poi a coloro che non sono di Noicàttaro, e che lo stimano, come attestato della reciproca considerazione, nel nome del comune interesse per la cultura.
Settanni è un uomo preparato e di indole riflessiva che, da più anni, va rimuginando nella mente il problema relativo alla origine del proprio paese, che egli persiste nel chiamare Noja, non condividendo per nulla le ragioni che, nel lontano anno 1862, indussero il Consiglio comunale del luogo a deliberare di chiamarlo Noicàttaro, basandosi sui poco convincenti elementi che militavano a sostegno di questo secondo Toponimo.
Tutto si basava su di una leggenda tramandata oralmente nei racconti di più generazioni, secondo la quale il paese di Noja sarebbe stato fondato verso il VII-VIII secolo da alcuni abitanti di una vicina città pugliese chiamata Càttaro, che i Saraceni avrebbero poco prima distrutto. Un'altra parte degli abitanti di questa si sarebbe invece rifugiata in Dalmazia, ove avrebbe fondato un'altra città, chiamandola Càttaro, a ricordo della patria perduta. L'eco di tale racconto ricorre in un dotto saggio Sul cangiamento del Lido Apulo, che l'insigne archeologo Emmanuele Mola pubblicò nel Giornale letterario di Napoli del 1°giugno 1796 dichiarando però di non aver mai trovato riscontro di quegli avvenimenti nel contesto storico della nostra regione.
Il che equivarrebbe a dire che egli non ne sarebbe rimasto molto convinto.
Non è mancato, fra i diversi studiosi che hanno approfondito il problema, chi ha creduto di identificare la Càttaro pugliese nel centro di Azetium, che i Saraceni effettivamente distrussero nel IX secolo, e sulle cui rovine sarebbe sorta l'odierna Rutigliano. Altri hanno parlato del luogo chiamato Cala Paduano ma, tirando le somme, si è trattato solo di vaghe ipotesi non suffragate da un barlume di prova.
Settanni, convinto più di Emmanuele Mola della inconsistenza di quella leggenda, della quale si è fatto pocanzi cenno, l'ha confutata col vaglio attento e puntuale di numerosi aspetti della questione, primo fra tutti quello che essa anticipa presso a poco di un secolo la venuta dei Saraceni, che, non nel VII-VIII secolo, ma nel IX si stanziarono qui stabilmente, dando vita al famoso Emirato di Bari.
Avvalendosi di tutti gli elementi offerti dall'abbondante letteratura prodotta dagli altri studiosi che si sono in qualche modo occupati del problema, egli ha osservato che il territorio compreso fra Noicàttaro e Rutigliano presenta solo pochissimi ruderi archeologici, peraltro privi di riferimenti storici.
Unico elemento di un certo interesse è rappresentato dagli avanzi di una via romana, venuti alla luce una ventina di anni fa, che farebbero pensare alla via mulattiera diretta a Benevento attraverso i paesi dei Pedicoli, dei Dauni e dei Sanniti, della quale fece cenno Strabone nella sua Geografia.
Siffatte tracce giacciono lungo la lama Paradiso-Calendola e si dirigono alla volta di Rutigliano.Ma nessun accenno, in tutto questo, è dato rinvenire in ordine alla mitica Càttaro, il cui benché minimo ricordo, di natura archeologica o perlomeno lessicale, sarebbe del tutto scomparso.
Venendo invece all'esame dei documenti concreti, sui quali soltanto si può basare una seria ricerca storica, va osservato che il toponimo Noa, attribuito alla odierna Noicàttaro, compare invece, per la prima volta, in una pergamena dell'Archivio capitolare di Bari, datata giugno 952, nella quale si parla di un certo Cinnamo di Noa, che vende a Grusafo, figlio di Leocaro chierico di Bari, alcuni beni stabili posti in Noa e nelle sue adiacenze, per il prezzo di 8 soldi Costantini.
L'indagine critica di Settanni si sofferma qui a considerare che, secondo la spiegazione fornita dal Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange, il vocabolo Noha o Noja allude al concetto di terreno irriguo lavorato di fresco, coltivato a maggese, come appunto si è sempre presentato il territorio di Noicàttaro, attraversato, sino a pochi decenni addietro, da acque superficiali, che lo rendevano paludoso e davano talvolta luogo ad abbondanti mene o alluvioni.
I terreni descritti nel documento del 952 erano per l'appunto di tal natura.
Di qui la fondata ipotesi che il toponimo Noja derivi appunto dal vocabolo noha, nella sua precisa accezione letterale, come è peraltro avvenuto per tanti toponimi, che rispecchiano le caratteristiche ambientali del sito cui si riferiscono. Lo stesso nome Noicàttaro, che il paese avrebbe potuto avere nel 952 nel significato di Nuova Cattàro (se rispondesse al vero la leggenda relativa alla precedente città di Càttaro di Puglia, che sarebbe andata distrutta), è di conio moderno perché risale, come si è detto, al 1862. Dunque Noa non deriva da Càttaro di Puglia, ma possiede una propria originaria identità che si perde in un'epoca non databile con cognizione precisa di causa.
Gli stessi abitanti della Càttaro di Dalmazia - come Settanni ha avuto modo di accertare attraverso un carteggio ottocentesco esistente nell'Archivio comunale - ignorano qualsiasi tradizione che colleghi la loro città alla Puglia. Essa corrisponde infatti alla greca Decàtera e alla romana Càtharum, fondata forse da profughi di Ascrivium o di Rison, distrutte entrambe per vicende belliche.
Perfino la raccolta degli Statuta et Leges Civitatis Cathari, conservata presso la Biblioteca Marciana di Venezia, non fa cenno di consistenti rapporti con la Puglia. Unico punto di un certo peso fu la dipendenza della città dalmata dalla Chiesa Metropolitana di Bari. Mancano del pari legami etnici di qualsiasi genere, mentre è risaputo che, in caso di trasmigrazione, la prima cosa che gli emigrati portano nella nuova sede, sono il nome e le tradizioni della patria perduta (si pensi, ad esempio, agli emigrati italiani negli Stati Uniti d'America!): se la leggenda nojana sulla Càttaro di Puglia avesse un logico fondamento, Càttaro di Dalmazia si sarebbe molto probabilmente chiamata Noicàttaro.Quest'ultimo fu invece il nome che la civica amministrazione di Noja deliberò di attribuire al paese nel 1862, quando un'apposita norma di legge impose a tutti i Comuni italiani di modificare i toponimi analoghi, aggiungendovi qualche opportuna specificazione, che servisse a distinguerli (fu allora che Bari si chiamò Bari delle Puglie, per distinguerla da un'altra Bari, che si trova in Sardegna).
Il Consiglio comunale di Noja nulla però aggiunse al vecchio nome, ma lo travisò radicalmente, sulla base di una infondata leggenda.
Settanni, dopo essersi soffermato sulla disamina di tutti gli elementi a favore e contro la propria tesi, non riesce a nascondere un certo disappunto per quell'atto di leggerezza compiuto dalle Autorità nojane quasi 130 anni fa e, nella seconda parte del suo interessante lavoro, assume le vesti di cronista di quella lontana epoca. Sotto tali immaginarie sembianze descrive punto per punto - sotto forma di gustoso resoconto giornalistico - i dibattiti e i sottintesi intrighi, nei quali si esercitava quella classe politica, descri- vendo le animate fasi di ogni seduta consiliare, fino a quella che vide cadere il sindaco Vito Sturni che pensava diversamente e che cercò invano di protestare presso le superiori Autorità, nel tentativo di trovare un rimedio alla deliberazione che aveva incautamente sancito il cambio del toponimo.
Questo, in rapida sintesi, lo spirito e il contenuto della fatica di Giacomo Settanni, al quale non si può fare a meno di rivolgere un vivo plauso, per l'entusiasmo che lo ha animato e per l'enfasi con la quale sostiene la bontà della propria tesi.
A parte tale considerazione, il suo lavoro rappresenta indubbiamente un contributo notevole alla conoscenza del passato di Noicàttaro e, come ogni onesta fatica, è meritevole di rispetto anche da parte di chi non dovesse eventualmente condividerne le opinioni.

 

VITO ANTONIO MELCHIORRE