3. Particolari testimonianze
documentali che depongono contro l'esistenza di rapporti diretti tra
Cąttaro di Dalmazia e Cąttaro di Puglia.
Esiste una preziosa e imponente raccolta di documenti di carattere storico-legislativo
sulla cittą di Cąttaro di Dalmazia, che il veneziano PETRELLI, Cancelliere
della stessa cittą, ha curato e pubblicato intorno al XVIII secolo sotto
il titolo di STATUTA ET LEGES CIVITATIS CATHARI. Si tratta di un prezioso
e raro volume (mancano la cittą di edizione, l'editore e l'anno di pubblicazione),
fortunatamente reperito presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia,
che contiene una lunga serie di Statuti e Leggi, che regolavano la vita
ammistrativa e civile della nobile comunitą di Cątharo dal 1301 d.C.
in poi. Orbene, questo importante documento rappresenta una ulteriore
risposta al Roppo, che lamentava la scarsa conoscenza della storia della
Cąttaro dąlmata, la quale, del suo passato, non solo "parla" ma č anche
ricca di particolari testimonianze monumentali e cartacee. Scorrendo
tutti gli atti amministrativi della cittą, in veritą abbastanza numerosi
e redatti in latino, non vi sono che pochissimi riferimenti ai rapporti
commerciali con l'opposta sponda pugliese. Ve n'č, perņ, uno molto interessante
che riguarda la cittą di Polignano in provincia di Bari, nel quale si
parla di una convenzione, relativa alla istituzione di una "franchigia"
doganale e daziale, stipulata il l° maggio 1407 tra i due Comuni autonomi,
cosģ com ' era gią avvenuto con Bari ed Ancona (cfr. pp. 20 e 295).
Ma, dell'antica Cąttaro pugliese o della nostra Noja, proprio nessuna
traccia.
Per di pił, accennandosi nei vari capitoli a diversi nomi di illustri
magistrati e notai cattarini, non emerge alcun cognome che si avvicini
pur minimamente a quelli diffusi in Noja, che si dice storicamente legata
alla cittą dalmata. Un'altra personale tesi del Tagarelli (smontata
da una corretta lettura dei testi ufficiali) č quella riguardante la
sudditanza religiosa della sede vescovile di Ascruvium - Cątharum alla
Chiesa metropolitana di Bari, durata ufficialmente dal 1089 al 1828
[21].
Secondo lo storico nojano, tale subordinazione sarebbe stata la conseguenza
della folta presenza in quella cittą di cittadini pugliesi (non esclusi
quelli dell'antica Cąttaro peucetica ) trasmigrati fra il VII e il X
secolo, periodo di unitą religiosa tra le due sponde [22].
Il vero motivo di tale subordinazione, invece, ce lo chiarissce esaurientemente
lo Sforza il quale basandosi su fonti attendibili, sostiene con assoluta
fermezza che il passaggio della Chiesa cattarina a quella barese verso
la fine dell'XI secolo non fu dovuto a questioni di ordine etnico, bensģ
a ragioni dettate dalle contingenze politico-religiose del tempo. Dal
IX secolo in poi, infatti, Bari era divenuta la principale cittą della
Puglia, trovandosi al centro di grossi interessi politico-religiosi.
per cui la Chiesa di Cąttaro, rifiutando la sottomissione alla conterranea
e piś potente Chiesa di Ragusa preferi' l' aggancio ecclesiastico a
Bari per realizzare cosģ la forte aspirazione di autonomia della cittą,
oltre che sottrarsi, secondo un piano di strategia generale, alla concorrenza
delle altre cittą dalmate pił vicine [23].
Inoltre, sempre riguardo all'aspetto politico-religioso, nel XII secolo
troviamo all'opera i giuppani (principi) Nemanja di Rascia, impegnati
ad intensificare i rapporti con il papato e gli Stati latini attraverso
Cąttaro ed altre cittą importanti della Provincia Marittima di cui erano
venuti in possesso [24].
In conclusione, ci permettiamo di osservare che, se i motivi della sudditanza
religiosa della Chiesa di Cąttaro all' autorita' vescovile di Bari fossero
stati generati davvero da motivi di natura etnica, perché allora in
provincia di Bari, fatta eccezione per Adelfia, dove č stato introdotto
nel XVIII secolo in maniera del tutto avventurosa [25],
non si riscontra alcuna traccia del culto di San Trifone [26],
che č il Protettore principale della cittadina dalmata fin dal IX secolo
d. C.? E poi, perché la fortuita circostanza storica che ha toccato
la vicina Adelfia non č stata cosģ felice anche per Noicąttaro, che,
secondo la coscienza tradizionalistica dei suoi abitanti, si ritiene
visceralmente legata alla storia di Kņtor? Dunque, se dovessimo considerare
valida l'ipotesi dell'interpretazione etnica dei legami tra le due Cąttaro,
la dalmata e la pugliese, sia nel caso che la prima avesse fondato la
seconda sia che la seconda avesse dato origine alla prima, avremmo dovuto
riscontrare per entrambe, sia pure in piccole tracce, quasi uno scambio
di tradizioni popolari caratteristiche di ognuna E' noto che, quando
una popolazione emigra (parliamo di gruppi consistenti di persone),
č spinta a portare con sé tradizioni e lin gua propri, che in qualche
modo le permettono di mantenere vivi i legami con la madrepatria e,
in parte, di recepire abitudini e tradizioni delle nuove terre di adozione.
Si pensi alle antiche, numerose colonie greche e albanesi tra nell'Italia
meridionale ed a quelle pił recenti dei nostri compaesani emigrati soprattutto
nel Nordamerica, dove ripetono annualmente alcune feste religiose caratteristiche
del paese natale (S. Antonio da Padova, S. Rocco, Madonna del Carmine).
Nel caso, poi, di Sammichele di Bari, fondato nel 1609 dal feudatario
di Casamassima Michele Vaaz, la piccola comunitą dģ Serbi provenienti
da Cąttaro, con la quale aveva dato origine al primitivo casale denominato
Casa Vaaz, venne addirittura espulsa dopo poco tempo per aver voluto
conservare la propria religione di rito greco ortodosso, contro quella
cattolica praticata nella terra ospitante [27].
Per concludere, non sto ora qui a domandarmi come mai il Roppo, che
pur cita il Codice Diplomatico Barese nel suo lavoro storico su Noicąttaro,
non abbia prestato la necessaria attenzione ad una preziosa pergamena
di fine dodicesimo secolo. Si tratta di un documento del 1195, dove,
tra Faltro, si parla della concessione accordata dalla imperatrice romana
Costanza ai cittadini dalmati di Cąttaro, per interessamento dell'arcivescovo
di Bari Doferio, di circolare liberamente per la Terra di Bari a vendere
le loro mercanzie.
Eccone il passo specifico nell'originale latino medievale:
«Ad istantiam quoque precum sepedicti Doferķķ venerabilis Archķepiscopi,
auctoritate nostra statuimus et donamus. ut quia civitas Catere, que
est in Dalmacia, suffraganea est barensis archiepiscopatus, quod ad
honorem regni nostri noscitur redundare, quociescumque Caterini cives
ad partes Apulie venerint; de quibuscumque fuerint impetiti, non respondeant,
nec satisfaciant nisi in curia barensis ecclesķe. Concedentes etiam
obtentu ipsius Archķepķscopi, ut ab exactione ancoratici et plateatici,
quo de navibus eorum et de mercimoniis suis in portu et civitate Bari,
tenebantur hactenus baiulis nostri exsolvere; liberi sint ipsi Caterini
penitus et immunes. Ad huius autem concessionis, confirmationis, et
constitutionis nostre memoriam et inviolabile firmamentum; presens privilegium
nostrum conscribi et maiestatis nostre sigillo cereo, iussimus roborari.
Anno, mense, et indictione subscriptis. »
[28] .
Traduzione:
«Su istanza e anche delle preghiere dello stesso citato venerabile arcivescovo
Doferio, con la nostra autoritą stabiliamo e concediamo, poiché dal
momento che la cittą di Cąttaro, che č in Dalmazia, č suffraganea dell'arcivescovo
barese, cosa che si sa viene ad onore del nostro Regno, tutte le volte
che i cittadini di Cąttaro verranno dalle parti della Puglia, da chiunque
siano stati impediti, non rispondano né soddisfacciano se non nella
curia della Chiesa Barese. Concediamo anche su proposta dello stesso
Arcivescovo, che gli stessi Cattarinķ siano liberi e immuni dall'esazione
dell'ancoraggio e del plateatico [= occupazione di spazio pubblico con
le bancarelle su cui esporre le mercanzie] che sinora erano tenuti a
pagare ai nostri baiuli [= esattori] riguardo alle loro navi e loro
merci nel porto e nella cittą di Bari; a memoria inviolabile di questa
concessione, conferma e decreto nostro, abbiamo ordinato che il presente
nostro privilegio sia sottoscritto e convalidato col sigillo di cera
della nostra maestą. L'anno, mese e indizione sottoscritti».
Questo documento non č da sottovalutare, perché, prima di tutto, ci
permette dģ accertare la presenza dei Cattarini slavi nel circondario
barese non prima della reale nascita di Noja, e poi ci porta a considerare
come la loro permanenza o passaggio attraverso il territorio nojano
avrebbe fatto vociferare ai nostri antenati che da queste parti, probabilmente
in prossimitą del mare, sarebbe esistita una cittą dal nome Cąttaro,
come quella posta al di lą dell'Adriatico. Sappiamo benissimo cosa succede,
quando in paese circola una voce. Molto verosimilmente. quel gruppo
di mercanti cattarini temporaneamente accampati sulla nostra costa per
ragioni di convenienza, avrebbero forse raccontato agli abitanti di
Noja di provenire da Cąttaro, che si trovava sulla riva opposta del
mare Adriatico, e magari avranno anche parlato della fantastica storia
della loro cittą. E cosģ la notizia, col tempo, sarebbe diventata quasi
una leggenda, specie dopo la definitiva uscita di scena di quei mercanti,
e avrebbe continuato a circolare s il a i tti in maniera vaga e imprecisa,
giungendo fino a noi come una credenza popolare. Il Mola ha raccolto
questa leggenda alla fine del '700, ma non sappiamo nulla di preciso
come e da quando la stessa abbia cominciato a circolare sulla bocca
degli abitanti nojani. Essa, infatti, potrebbe risalire anche a molto
tempo dopo i termini storici supposti dalla stessa leggenda, cioč dopo
il Mille. Non ne abbiamo la assoluta certezza, ma ci permettiamo di
immaginare che alcuni gruppi di mercanti cattarini agevolati dalla concessione
imperiale avrebbero potuto decidere di dimorare pił a lungo in un luogo,
formando delle piccole Colonie etniche, o addirittura di inserirsi completamente
in qualche comunitą locale lungo la costa barese o pił verso l'interno.
Note
[21]
Cfr. F. Sforza, op. cit., p. 149. Esiste una pergamena del 1187, raccolta
nel C.D.B., vol. I, di NITTO DE ROSSI doc. n° 60),ristampa a cura della
Societą di Storia Patria per la Puglia, Trani, Vecchi e C.1964, .in
cui si dice che il vescovo di Bari e Canosa RINALDO, dietro istanza
del vescovo di Cąttaro BOCINE concede a lui ed ai suoi successori alcune
case nelle vicinanze della cattedrale, dove possano alloggiare ogni
volta che vengano a Bari.
[22]
Cfr. S. TAGARELLI, Il mio paese, III, cit., p.48
[23]
Cfr. F. SFORZA, op. cit., pp. 42, 51.
[24]
Cfr. ENCICLOPEDIA TRECCANI, Vol. XXXI pp. 418-19, Roma, edi.1949
[25]
La tradizione locale di Adelfia, paese a pochi chilometri da Noicąttaro,
racconta che verso il 1750, a portare la devozione di S. Trifone nel
suo paese di cui divenne in breve il Protettore, fu un marinaio di Montrone
(Montrone era un Comune autonomo che; unendosi a Canneto, assunsero
nel 1927 la denominazione di Adelfia), che probabilmente toccņ le rive
di Cąttaro.
[26]
Il Santo martire Trifone č raffigurato nello stemma cittadino di Kņtor
(uno scudo). La sua figura č stata, da sempre, parte integrante e simbolo
di unitą cittadina fino al punto da comparire in tutte le parti introduttive
ai vecchi atti amministrativi (Cfr. STATUTA ET LEGES CIVITATIS CATHARI,
op. cit.). A beneficio dei lettori pił interessati, pubblichiamo in
libera traduzione italiana dal testo del CORNELIO (op. cit.,pp.4-5 )
la breve storia dell'arrivo del corpo di S.Trifone a Cąttaro al principio
del IX secolo, molto simile e quasi contemporaneo a quello del corpo
di S. Nicola di Mira a Bari e di S. Marco a Venezia:« Da un atto
notarile cattarese dell'809 ricaviamo: E' tradizione presso gli abitanti
di Cąttaro che il corpo di S. Trifone fosse stato asportato dai Veneziani
dal Borgo Capsade sito nelle vicinanze della cittą di Apamea in Frigia
perché fosse trasferito nelle Venezie, contemporaneamente alla sottrazione
da Alessandria delle preziose spoglie di S. Marco Evangelista. Avvenne
che, mentre i sacri corpi venivano trasportati su diverse navi veneziane,
per divina volontą, la nave che trasportava il corpo di S.Marco Evangelista
compģ un felice e mirabile viaggio; la nave con la quale si trasportava
il corpo del divino Trifone, invece, fu costretta, a causa di un'improvvisa
tempesta, ad entrare nelle Bocche di Cąttaro. A Cąttaro viveva un uomo
nobilissimo e religioso di nome Andreazio. I Veneziani, messisi al sicuro
con la loro nave nel porto di Cąttaro, proposero a costui che avrebbero
potuto consegnarli il corpo di S. Trifone in cambio di una grossa somma
di denaro. Il sig. Andreazio accettņ la proposta e diede loro in cambio
del corpo del Santo duecento Solidos romani nonché una corona con gemme
del valore di cento Solidos, in totale trecento Solidos. Quando il corpo
di S. Trifone fu sbarcato dalla nave, gli andarono incontro, secondo
le costumanze, i chierici per condurlo in processione per le vie della
cittą. Ora avvenne che, quando il corteo si fermņ in piazza, si fece
avanti Naclerio, uomo molto vecchio e devoto di S. Trifone e che era
sempre stato in attesa di rivedere il suo corpo, il quale, inginocchiatosi,
disse: Oh S. Trifone, Ti ho atteso per tanto tempo! Appena Naclerio
finģ di pronunciare tali parole, il sacro corteo non si poté pił muovere:
a Naclerio si erano chiuse la bocca e le orecchie. I chierici, allora,
pregarono S. Trifone di aver pietą di costui, che si era fermato in
ginocchio davanti a lui. Intanto erano giunti sul posto i bambini, figli
di Andreazio, con la mamma Maria, i quali insieme al padre decisero
di far costruire in quel luogo una chiesa, dedicandola a S. Trifone,
che cosģ divenne patrono della cittą. Don Andreazio, a seguito di ciņ,
diede ad uno dei suoi figli cento Solidos per comprare i liberti Marino
e Premarck in onore di S. Trifone e concesse inoltre a tutti i Zarotini
dal nome Granzi, che erano liberti, di chiamarsi non pił liberti ma
fratelli »
[27] «Michele Vaaz
ebreo portoghese nella guerra fra Portogallo e Spagna fu fatto prigioniero
da Filippo II, il quale conosciutone il valore, dicono i cronisti dell'epoca,
lo inviņ a Napoli, dopo il 1570, con molti incarichi. E a Napoli fa
carriera tra la folla dei commercianti, degli amministratori e, degli
avventurieri. Il Vaaz non era una spiantato, tutt'altro; ma č vero anche
che era un uomo di grandi affari, audace e senza scrupoli. Ambizioso
e audace, concepisce il disegno di creare un nuovo paese, che a lui
s'intitoli, che lo illustri come fanno i grandi. Ha danaro, molto danaro,
puņ fondare colonie, puņ costruire case; gli occorrono coloni che abbattano
querce, arino la terra e la riducano a giardino. Ma egli non cerca fra
i capaci rurali dei villaggi vicini. Siccome non ha patria, non puņ
sentire la fraternitą del sangue. Vuole novitą, e cercņ fra gente straniera;
a lui straniero non interessa la purezza della razza. Cosģ trovņ coloni
fra i Serbi. Impaziente del desiderio di popolare il Casale, mandņ in
Dalmazia tre suoi grossissimi galeoni che teneva per uso suo di diversi
traffici e mercanzie e si fece condurre da quella parte molte famiglie
intiere e tutti i loro arredi e animali. Quelli erano tempi calamitosi
anche per la Balcania: I Turchi avanzavano fin verso Buda e Vienna;
e le genti dell'interno si riversarono fuggiasche verso la costa del
mare nostro, dove Venezia sosteneva ancora con le sue armate il prestigio
dell'Occidente. A Cąttaro, latina, appunto, il Vaaz trova una colonia
di profughi del Principato di Zuse insofferenti del duro dominio turco;
e li porta in Italia a proprie spese, nella terra nostra, ospitale sempre
ai miseri, anche se sempre mal pagata. Sbarcati a Barletta, i Serbi
erano guidati dal sacerdote Damiano De Damianis di Cąttaro e da alcuni
capi di loro razza. I Serbi ed il loro pastore Damiano erano di rito
greco; ciņ mette in allarme l'arciprete di Casamassima, Don Marcantonio
Latilla, nella cui giurisdizione gli stranieri son venuti a far colonia.
Infatti, gli ospiti fraternamente accolti mostrano in breve "come certa
gente, che neppure oggi si č spogliata della scorza barbara mal si adatta
ai contatti e alla comunione di vita con chi vanta millenni di civiltą".I
Serbi fanno finta di accettare per i loro neonati di buon grado il battesimo
della Chiesa di Roma; ma essi ribattezzano furtivamente i loro piccoli,
immergendoli in una tina d'acqua secondo il rito greco. L'arciprete
di Casamassima comunica la cosa all'Arcivescovo di Bari, Ascanio Gesualdo,
il quale, allarmato, scrisse alla Santa Sede per i provvedimenti per
ovviare a tanto scandalo. Il Vicerč a seguito degli ordini ricevuti
ordinņ che i coloni serbi fossero subito sfrattati dal paese. E cosģ
costoro se ne andarono chi di qua e chi di lą. Le sole colonie che vissero
ab immemorabili in quasi ogni cittą e prosperarono in molte di esse
sono le ebraiche» Cfr. L. D'ADDABBO, San Michele e una colonia
Serba, in «Japigia»,anno VII, fasc. III, Bari, Cressati
1936, p. 8 e segg.).
[28]
Cfr. F. Nitti di Vito, C.D.B.,cit. doc. n° 65, anno 1195, righe 38-48.