Un vescovo missionario
Il
25° anno di episcopato di Mons. Nicola Laudadio
La fausta data del ventcinquennio di Episcopato
di Mons. Nicola Laudadio, Vescovo di Galle, è motivo di gioia
e di legittima soddisfazione per noi gesuiti dell'Italia meridionale,
che guardiamo a quella eletta porzione della mistica vigna del Signore
come al campo ubertoso affidatoci dalla Provvidenza per svolgere
l'attività missionaria, propria della nostra Compagnia
Dopo la separazione della Missione del Nuovo Messico e Colombo,
fu affidato alla Provincia di Napoli il compito di aiutare prima
e di prendere poi nelle sue mani la Missione di Galle nella lontana
Isola di Ceylon, già per 30 anni evangelizzata e fondata
dai sudori apostolici dei PP. Belgi.
La domenica 5 ottobre 1924, nella chiesa del Gesù nuovo,
in Napoli, un gruppo di giovani missionari si prostrava dinanzi
all'altare, per ricevere dalle mani del Card. Ascalesi il, Crocifisso,
da lui benedetto, ed attingere da Dio e dalla vergine Immacolata
coraggio e protezione per le fatiche apostoliche che erano in procinto
di affrontare. Tra questi pionieri vi era , come capo del fortunato
manipolo, il P. Nicola Laudadio; contava allora 33 anni, essendo
nato a Noicàttaro (Bari) il 14 aprile 1891.
Il Signore, che per vie misteriose prepara i suoi eletti ai compiti
che intende loro affidare, lo aveva arricchito a dovizia delle doti
indispensabili per così arduo ministero intelligenza , tenacia,
fortezza d'animo, resistenza alla fatica, costanza nell'operare.
Alto e vigoroso nella persona, egli era entrato nella Compagnia
giovanissimo, poco più che quattordicenne. Sin dai primi
anni del suo ingresso, attese con impegno e serietà alla
sua formazione spirituale e culturale, rivelando un'indole mite
e amabile, che lo rese caro a tutti, superiori e compagni.
Terminati con lode gli studi di filosofia a Jersey, iniziò
il magistero come prefetto al collegio Sozi-Carafa in Vico Equense,
ma mentre palesava le sue non comuni qualità pedagogiche
nell'arte difficile di guidare e formare i giovani, ecco che la
terribile bufera della prima guerra mondiale lo strappò da
questo nobile campo di lavoro, per gettarlo negli orrori della caserma,
tra disagi più penosi e opprimenti.
Nei quattro interminabili anni che durò il conflitto egli,
come del resto la maggior parte dei nostri giovanisoldati, tenne
sempre lo sguardo rivolto ai sublimi ideali della vita religiosa
e restò fermo alle inviolabili promesse, giurate dinanzi
all'altare di "Mater Auxiliatrix".
Deposta la divisa militare, dopo di aver dato a Gesù e alla
Vergine un solenne attestato di fedeltà e di amore purissimo,
iniziò a Posillipo, nello scolastico di Villa S. Luigi, gli
studi di teologia. In questo periodo rifulse non solo il suo impegno
nell'apprendere le discipline teologiche, coronate dal positivo
esame "ad gradum" e dalla solenne professione di 4 voti,
ma anche la sua squisita carità nel redigere le lezioni di
teologia positiva dettate da P.Schwab. Queste lezioni, stese con
la sua bella e chiara calligrafia, furono ciclostilate e pubblicate
a dispense, con grande vantaggio dei condiscepoli, che si videro
agevolato lo studio di una materia così importante, qual
è la teologia fondamentale. In occasione di una disputa teologica,
egli lesse a refettorio una dotta dissertazione, frutto di studio
e di ricerche accurate e pazienti, che fu molto apprezzato da vari
Vescovi presenti all'agape fraterna.
L'estensore di queste note gli fu compagno in una riuscita missione
a Baronissi nel settembre del 1922 in cui, oltre allo zelo spiegato
per il bene delle anime, contribuì al buon successo con la
sua bellissima voce, che, modulata, con arte e sentimento nei canti
missionari, attirava e commuoveva i numerosissimi uditori.
Giunto alla meta dei suoi ardenti desideri nell'Isola lontana, che
doveva diventare il vasto campo del suo apostolato e più
tardi del suo ministero pastorale, dimostrò un altro dono
non comune, quello definito dal Padre Provinciale del tempo il "donum
scribendi".
Scrisse, infatti, delle lettere interessantissime ai superiori,
ai confratelli, alla direttrice di un laboratorio per le missioni,
alle signorine stesse che con zelo e sacrificio personale vi lavoravano.
In queste lettere non si saprebbe se più ammirare l'eleganza
dello stile, la chiarezza del dettato, l'immediatezza dei bisogni
della Missione, che balzano vivi allo sguardo di chi legge o il
soffio ardente di zelo che tutte le anima.
In una di esse, dopo di aver narrato una pericolosa caduta dalla
bicicletta che gli cagionò «una contusione abbastanza
violenta al petto ed una lussazione al polso, che gli tenne la mano
ed il braccio immobile e dolorante per una settimana» così
assicura le lettrici:«Non si allarmino: prometto loro che
sarò più prudente, ma non prometto di risparmiarmi
quando si tratta di portare un po' di parola buona a queste anime,
la cui salute mi assilla». E più avanti così
continua con una vivace ed espressiva similitudine:«Si lavora
lentamente, senza far chiasso: altrimenti i buddisti che spiano
sempre i nostri passi, ci romperebbero le uova nel paniere, e noi
vogliamo invece vogliamo che le uova diventino pulcini o capponi
e galli dalla voce squillante».
A proposito della difficile lingua singalese egli così si
esprime, sin dal terzo mese del suo arrivo in missione:«la
lingua, a poco a poco, comincia a rendermi buon servizio, quantunque
sia ancora molto lungi dalla perfezione: ma le occorre dietro ogni
giorno e la raggiungerò». Egli infatti la raggiunse
presto, mostrando un'altra dote propria del missionario, la proclività
ad apprendere perfettamente la lingua inglese e la francese ambedue
necessarie a sapersi da un missionario dell'Isola di Ceylon, essendo
la prima ufficiale del paese, allora governato dellìInghilterra,
e la seconda quella parlata dai misionari belgi, che ci avevano
preceduto.
Al «donum scribendi» aggiunge il «donum petendi»
anch'esso indispensabile nel realizzare le opere richieste dalla
gloria di Dio e dal bene delle anime. Egli domanda con garbo e signorilità,
sotto voce: gli basta accennare alle necessità di cui sono
premuti i suoi protetti, che sono come Gesù i più
poveri e bisognosi.
«il nuovo Padre italiano, egli scrive, accorda le sue preferenze
ai poveri che sono in gran numero. Ed essi lo amano il P. Laudadio,
perché ha sempre qualche centesimo per loro, un pugno di
riso, un po' di tè, qualche medicina: e quando tutto questo
manca, ha sempre un sorriso per i loro piccoli, una parola buona
per i grandi, finanche…oh! Perché negarlo?…finanche
delle lacrime per loro. E ne ho versato davvero, quando, non avendo
nemmeno un centesimo in tasca, ho dovuto rimandarli indietro, con
le stesse miserie di prima, con la promessa di un aiuto, quando
la provvidenza sarebbe venuta d'Europa. E se quella non viene, il
missionario va picchiare alla porta e alla borsa dei grandi».
Ma la provvidenza non si fece aspettare. Suscitata da cenni così
delicati, giunse copiosa, tanto che gli permise di portare a compimento
la chiesa di Balangoda, dov'era stato inviato come assistente del
parroco.
Dopo circa dieci anni di lavoro i quali il buon Padre prodigò
i tesori della sua mente e del suo cuore in molteplici attività
culminate nella nomina a parroco di Ratnapura, capoluogo di provincia
e centro di un distretto missionario, con l'annesso ufficio di vicario
foraneo, il Signore volle premiare le fatiche del suo servo fedele
con le infule episcopali, che pur essendo un alto riconoscimento
delle ansie sofferte, importano un pesante fardello di nuove fatiche
e di più altre ardue responsabilità
Egli veniva eletto vescovo della diocesi di Galle il 5 agosto 1934
e consacrato il successivo 30 settembre nella cattedrale di Galle.
Nella nuova altissima dignità, da lui accettata per obbedienza
al Sommo Pontefice, il suo sguardo potè spaziare su tutti
i campi della vasta Diocesi e da questa visione egli trasse aumento
di zelo e raddoppiata sollecitudine per colmare lacune e sovvenire
alle più urgenti necessità della Missione.
Venuto infatti in Italia l'anno successivo alla sua consacrazione
episcopale, sia per ringraziare il S. Padre che per un giro di propaganda
missionaria, percorse da un capo all'altro le case, i collegi ed
i seminari della Provincia, mostrandosi instancabile nel tenere
conferenze, illustrate da proiezioni, che suscitarono una crociata
di preghiere, di elemosine e di ogni genere di aiuti in favore dell'intera
missione, diventata il palpito del suo cuore pastorale e l'oggetto
del suo inesauribile zelo.
Sono trascorsi rapidi questi 25 anni del suo Episcopato ed egli
è sempre là, sulla breccia, sempre alacre ed intrepido(anche
se sulla sua barba è caduta un po' di neve), sempre animato
dallo stesso desiderio di vedere ampliato il Regno di Cristo Signore!
A noi lontani, che lo abbiamo seguito con affetto e venerazione,
ai molti amici ed estimatori che non hanno dimenticato, a quanti
credono ed apprezzano il valore di una vita tutta spesa nel prodigarsi
senza per l 'altrui salvezza, non rimane che unirci al plebiscito
di affetto e di preghiere che la Diocesi gli tributa per la fausta
riconoscenza e per dirgli dal fondo del dei nostri cuori:«ad
multo annos» per la maggior gloria di Dio, per il bene delle
anime, per la diffusione di quella fede «bella, immortal,
benefica, ai trionfi avvezza» che ogni giorno ne scrive dei
nuovi coi sudori e col sangue dei suoi eroici Missionari!
Agnello Iaccarino S.J.
(Dalla rivista "Societas"
dei Gesuiti meridionali n. 5 del 1959)
|