A.M.D.C.
Le prime scaramucce
Kegalle
(Ceylon) 21 aprile 1925
Rev. in Cristo P. Provinciale
Rispondo alla sua del 14 marzo, ringraziandola
della sua bontà e generosità. Non le voglio nascondere
che un po' prima di Pasqua mi è toccata "asciugare",
come dicono i francesi, una seconda caduta di bicicletta, riportando
una lussazione al braccio sinistro, grazie al cielo di nessuna conseguenza.
Ora sto benissimo e pronto a volare di nuovo alla prima occasione.
Il Signore veglia sui miei passi, anche quando sono un po' imprudente.
Ella vorrà forse sapere come è andata la faccenda.
È lunedì della settimana santa. Mentre sono in veranda
recitando il breviario, si presenta un giovanotto con una lettera
indirizzata al P. Standaert, parroco della comunità cattolica
di Kegalle, un padre belga che ora aiuto nelle sue funzioni parrocchiali
Il P. Standaert, dà uno sguardo alla lettera e me la consegna
pregandomi di rispondere: la maestra della nostra scuola cattolica
di Walegame , uno sei quattro villaggi affidati alle mie cure apostoliche
scriveva: Mia sorella è improvvisamente caduta in condizioni
gravissime; prego venire immediatamente ad amministrare l'estrema
unzione. Vado subito, rispondo. Si era anche pensato a mandarmi
un carrozzino tirato da un giovane bue, che trotta magnificamente:
il conducente non gli lascia nemmeno il tempo di respirare: Dopo
un'ora e mezzo di strada, sono alla casa dell'ammalata. La maestra
e il padre mi si fanno incontro piangendo. Rivolgo loro qualche
parola di conforto e mi faccio condurre dall'inferma. Mi fanno passare
in una piccola stanzetta, rischiarata dal lume di una candela. In
un angolo sopra un letticciuolo di stile singalese, quattro persone
cercano di tenere ferma una giovane donna, la quale urla, strepita
e si dimena in preda a convulsioni terribili. Domando al babbo di
che si tratta. «Padre, mi risponde, stamane stava benissimo;
da alcune ore soltanto è in questo stato violento, e per
quanto torturi il mio cervello, non posso conoscerne l'origine».
Mi avvicino all'ammalata, i circostanti l'avvertono della presenza
di Swami, io stesso la chiamo per nome. Ella spalanca gli occhi,
mi guarda, ma non mi riconosce e continua a gridare e a contorcersi
sul letto, benché i quattro con tutta forza cerchino di vincere
i suoi movimenti convulsi. Faccio capire alla maestra che in tali
condizioni mi pare impossibile amministrarle i Sacramenti.
Dopo mezz'ora circa d'attesa, vedo fermarsi innanzi alla casa un
carrettino, e da esso scendere un uccello giallo : così sogliono
qui chiamare i monaci buddisti. La sua venuta mi impensierisce.
Mi rivolgo immediatamente alla maestra, e con tono vibrato le chieggo:
Mè kària kàuda - Chi è costui? . Padre,
mi risponde, non pensi male: è il dottore. - I monaci buddisti
infatti, pretendono farla da dottori: Il dottore dunque in veste
gialla, un vecchietto magro e alto, entra nella camera. La presenza
di Swami, che , tra parentesi, ha tanta voglia di ridergli in volto
e di mandarlo al foglio quinto, l'impressiona un poco, ma non lo
scompone. Si avvicina al letto, getta uno sguardo sulla povera giovane
e si ritira nell'anticamera a parlare col padrone di casa. Swami
resta imperturbato al suo posto, pronto a reagire al primo segno
di battaglia. Mentre sto, li a spiare tutti i movimenti di mastro
budda, ecco che la mamma dell'inferma entra in camera con in mano
una boccettina consegnatale dal dottore. Sospettando qualche tranello,
afferro tosto il braccio della mamma, una buona vecchietta, e con
tono imperioso: aspetta, le dico, mostrami un po'. La buona vecchietta
non se lo fa ripetere e mi porge la boccettina. Comincio allora
ad esaminarla, la giro e rigiro, la guardo da tutti i lati: nessun
segno esterno mi illumina sulla natura del liquido nero che è
racchiuso; la sturo, l'accosto alle narici: un miscuglio di alcool,
di etere, trementina e che so altro. Che cos'è, domando alla
vecchierella, - È un po' di medicina per far delle frizioni.
- Non dai, rispondo, e restituisco la boccetta con un sorriso. Assisto
all'inizio delle operazioni e le assicuro che, se il caso non fosse
pietoso, c'era da ridere saporitamente. Una donna, forse un'infermiera
prende la boccetta e comincia a versare del liquido sulla fronte
e nei capelli dell'inferma, mentre la povera paziente si contorce
come un'energumena, gridando a squarciagola, l'infermiera la stropiccia
a tutta forza. Poi con una cannuccia, soffiandoci dentro, nella
bocca, nulla curandosi della violenta reazione che ne nasce. Il
dottore giallo se ne sta frattanto nell'atrio parlando con la padrona
di casa, aspettando l'esito del suo farmaco.
Esco anch'io, ed ecco la maestra mi si avvicina portando nelle mani
avvolti in un pannolino, due cosini che si muovono, due cosini color
caffè e latte, che dimenano le gambette e si stropicciano
con le manine gli occhietti ancora assonnati: - sono i tuoi bimbi?
- domando alla maestra - No, Padre non sono ancora cristiani, il
maschietto è già in cattive condizioni. Padre, li
battezzi. - Si, rispondo, ma ora non ho nulla con me verrò
domattina presto. - I due bambocci mi fanno una smorfia e la zia
se li porta via contenta.
Sono intanto le sei pomeridiane. Rientro nella camera dell'inferma
e assisto all'esito delle operazioni: l'inferma è presa da
un violento attacco epilettico, contorce gli occhi e menda fuori
schiuma dalla bocca. Dimenticando di essere a Ceylon, in un momento
di eccitamento nervoso e nello stesso momento di compassione per
quella povera donna: - Lasciatela stare - dico in italiano- e mandate
il vostro dottore al paese di Pulcinella - Mi guardano sbalorditi;
faccio loro capire che buttino via la medicina e lascino tranquilla
l'ammalata. Mi ubbidiscono, e il signore giallo se ne va, non so
se contento o scontento del suo ministero, perché non si
degna neanche di salutarmi,
Io esorto l'inferma e i parenti in lacrime a sperare nella bontà
del Signore, e abbandonarsi fiduciosi al suo gran Cuore. Intanto
faccio avvicinare al letto una panca, vi metto su un crocifisso
e la maestra vi accende innanzi due candelotti. L'infermiera sembra
star meglio, si quieta, si tranquillizza, capisce qualche cosa.
Approfitto di questo momento per l'amministrarle l'Estrema Unzione.
Il tramonto che si avvicina mi obbliga a ritornare alla residenza.
Benedico tutti e parto, promettendo di ritornare il mattino appresso.
Siamo al martedì santo. Appena celebrata la S. messa, salgo
in bicicletta e via di corsa, a portare un po' di felicità
nella sua casa provata dalla sventura. Alle 8 varco la soglia: mi
aspettano: la maestra mi viene incontro, s'inginocchia e mi saluta
sorridendo e dicendomi: - Padre, va meglio, sia lodato Dio. - Entro
nella camera: l'inferma mi riconosce; la benedico, la incoraggio,
la esorto a sperare sempre nel Signore, ed esco fuori per preparare
l'occorrente per i due battesimi.
I due bambocci sono già tra le braccia della maestra e di
una cognata. Domando che nomi vogliono loro imporre. - Padre la
bimba la vorremmo chiamare Margherita, e il bambino… col suo
nome, per avere un ricordo vivente di Swami.
Il loro delicato pensiero mi commuove; appago il loro desiderio
e dopo Margherita battezzo Nicolino.
Terminata la cerimonia sacra, mi si offrono i complimenti di famiglia
una tazza ci caffè: il caffè non c'è male;
sa di un po' di fumo e di pignata ; poco importa. Mala tazza!…
se l'avesse vista, Padre. Bianca di fuori, ma di dentro… ha
un colore strano, un color di arnese non lavato forse da mesi e
messo a giacere sul camino; e poi poco fa vi ha bevuto anche l'inferma.
Le confesso, Padre, che sento al solo vederla, curiosi e pericolosi
impulsi di stomaco . Decido di rifiutare, - Grazie - dico alla maestra
- non s'incomodi troppo e si domandano forse, perché Swami
rifiuta una tazza di caffè. Intuisco che faccio male a non
accettare, e allora …: Swami animo e coraggio!… Prendo
la tazza e trangugio tutto fino in fondo. Sorridono di contentezza
e … sorrido anch'io, un po' sforzatamente però, perché
un certo odore di trementina tradisce l'uso fatto della tazza per
le frizioni dell' inferma. - Coraggio Swami non è la prima
volta né sarà l'ultima!
Ciò nonostante, sono contento di aver fatto un po' di bene
e di aver reso felice una famiglia. Con tale gioia nell'animo, saluto
tutti, monto in bicicletta e prendo la via del ritorno, pedalando
con tutta la velocità che mi che mi pervade. Giungo alla
metà di una curva abbastanza ripida il freno mi si rallenta,
povero me!. La bicicletta acquista una velocità vertiginosa,
e mi porta dritto contro un muro. Vedendomi a mal partito, perdo
la calma, sterzo di botto a sinistra per evitare il muro, e cado
a terra , piatto come un salame. Tuttavia trovo ancora tanto coraggio
da rialzarmi, faccio un po' di ginnastica, mi assicuro che la testa
è salva, che le gambe e le braccia si muovono bene, e mi
provo a raddrizzare il manubrio che si è piegato ad angolo
retto.
Intanto un automobile che mi seguiva a breve distanza si ferma.
C'è dentro una suora del convento con altra gente. Il conducente
un giovane cattolico, accortosi che io voglio ritentare la corsa,
è sceso immediatamente, e mi afferra la bicicletta. - Che
fa Padre, vuole ammazzarsi? - niente di male, rispondo, posso camminare
- Come continuare se è spezzato il freno? - Infatti non me
ne ero accorto il freno era in due pezzi. Lo chaffeur insiste, si
fa un posticino in automobile, e il biciclo e ciclista si mettono
dentro, la mia macchina sul predellino ed io vicino alla suora.
Giunti a Kagalle, per non far cattiva figura, Swami e la bicicletta
vulnerata, per aliam viam erversi sunt in regionem suam.[1]
A casa narro l'avventura senza nessuna preoccupazione, rassereno
gli animi, depongo la mia veste bianca lorda di fango ed eccomi
fresco come una rosa. Tale stato di benessere però dura poco,
perché comincio a sentire un doloretto nel gomito sinistro.
Non ci bado da principio, ma il doloretto aumenta, aumenta, e il
braccio comincia a gonfiarsi. A mezzogiorno, dopo cioè due
ore dal mio arrivo, il braccio s'immobilizza.
Dopo pranzo, spasimando dai dolori, sono condotto in ospedale in
cerca di un medico. S'immagini Swami Laudadio, con un braccio sospeso
al collo, dirigersi verso l'ospedale, lentamente perché ogni
passo si ripercuote nel braccio, attraversare la via principale
di Kegalle, tra la curiosità della gente che ha già
saputo come Swami sia caduto di bicicletta, rompendosi il braccio.
Di tanto in tanto mi vedevo salutato con genuflessioni come se fossi
vescovo: è appunto il modo, loro di salutare il loro caro
Padre. Quando Swami va per strada, allora chi va per via si ferma,
e quelli che sono in casa escono tutti sulla soglia, uomini e donne,
congiungono le mani e piegano il ginocchio curvando ancora la testa
perché Swami li benedica. Le mamme congiungono le manine
dei loro piccoli e li pongono in ginocchio per salutare Swami.
E questo saluto lo ripetono ogni volta che l'incontrano , anche
in piazza, sotto lo sguardo degli stessi buddisti. Son fieri della
loro religione e il rispetto umano non nemmeno cosa sia.
L'assistente del direttore dell'ospedale, un giovanotto che ha i
suoi studi a Londra, e che conosco bene, mi applica una stecca al
braccio e mi spedisce.
Alla notte non posso chiudere occhio dal dolore; e la mattina appresso
neppur dire la messa, è il mercoledì santo Swami si
accosta alla S. Comunione col braccio sospeso, al collo, con quanta
meraviglia dei fedeli, può ben immaginarselo.
Alle 10 circa, vado io stesso dal P. Standaert: Padre - gli dico
- il dolore non diminuisce e la cosa si fa seria - Mi vuole accompagnare
all'ospedale? - Vi andiamo subito, e questa volta insieme con l'assistente,
c'è anche il direttore. Storia e preistoria domande e risposte,
tentativi di movimenti e dolori: si conchiude diamogli il cloroformio
e mettiamole il braccio a posto. Faccio subito notare che ho fatto
colazione; si comincia a dubitare, si questiona e si decide: Padre,
non sappiamo di che si tratta. La miglior cosa sarebbe andare a
Colombo, prendere una radiografia del braccio e se c'è da
operare, potrà operarsi meglio a Colombo. Roma locuta est,
causa finita est..[2]
Ritorniamo indietro abbastanza impressionati: il coraggio del sottoscritto
è agli sgoccioli. Prima di andare a Colombo, è forse
prudente telefonare per prendere l'appuntamento col radioscopo.
Ci vien risposto che a Colombo, non c'è né radioscopo,
né specialista, né dottori, sono tutti assenti per
vacanze. Per farne ritornare qualcuno, bisogna rivolgersi all'ispettore
generale di sanità pubblica.
Tale risposta mi fa perdere ogni speranza umana, ma mi decido a
porre tutte le mie speranze nel Signore. «Padre, dico al P.
Standaert, rivolgiamoci al vero ispettore generale d'ogni sanità:
abbandoniamoci alla volontà di Dio. I miei dolori gli son
noti, se vuole può guarirmi, e lo vorrà perché
è Padre di tutti i missionari».
Metto così ogni fiducia nel Signore ed Egli opera con amore.
La sera il braccio va meglio e la notte posso riposare un poco.
La mattina seguente giovedì santo, il braccio è ancora
fasciato, ma il dolore è diminuito di molto e Swami può
fare la comunione pasquale, con una gioia immensa nell'anima. Poi
vado sempre migliorando e la domenica di Pasqua posso dire senza
difficoltà la messa e distribuire circa 500 comunioni. Ora
sto benissimo, e non veggo l'ora di avere una bicicletta mia propria,
per correre, correre e far felici, non una famiglia sola ma tutte
quelle che il Signore ha voluto mettere sul mio cammino, perché
le potessi incontrare e far loro del bene. Ho tanto entusiasmo nell'animo
che mi vien voglia di gridare: Viva Ceylon! Vivano i missionari!
Viva più di tutti il Signore di Ceylon e dei missionari.
Padre, ho varcato i limiti della discrezione e ho abusato della
sua pazienza. Mi perdoni. Valga però questa piccola avventura
a incoraggiare i nuovi missionari partenti e a dir loro con qualche
sguardo buono la Divina Provvidenza veglierà su di essi e
quanta parte di felicità è riservata ai loro lavori.
Le annunzio che due madri buddiste mi hanno portato due bambine
di pochi mesi pregandomi di prenderle, perché non potevano
nutrirle e sarebbero morte certamente. Le ho battezzate con i nomi
di Lina e Maria, e le ho affidate a due famiglie cattoliche che
le nutriranno e educheranno a mie spese, finché non potranno
essere accette in convento. Mi mandi qualche centesimo; da parecchi
giorni non posso soccorrere nessuno e quando mi vengono a domandare
qualche cosa, son costretto a mostrare il vuoto del mio portamonete.
Mi benedica e mi raccomando alle sue preghiere.
Note
[1]
Per altra strada tornai a casa mia
[2] Roma ha parlato
la mia missione è finita
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