Appendice n.4
La masseria del Gallinaro
Da ragazzo ho sempre sentito parlare in modo affascinante
dell’esistenza di masserie (o massarie) come simboli di un
sistema agricolo-economico del passato, dove, in piena autonomia,
la famiglia del massaro e i lavoratori agricoli vivevano per buona
parte dell’anno in comunità. Ero attratto particolarmente
dallo svolgimento della vita in tali ambienti, che conservavano
usi e tradizioni agricole locali.
Le variegate dizioni delle contrade e masserie agricole nojane mi
hanno sempre incuriosito e spronato sin da quando, da capo Scout
(1945-47), guidavo i giovani Esploratori dell’A.S.C.I. nelle
escursioni del territorio nojano a prendere visione diretta della
loro collocazione nel territorio.
La collaborazione del compianto Pietro Scarpelli, ex comandante
dei Vigili Campestri di Noicàttaro, mi ha permesso di conoscere
direttamente e con minuzia di particolari quasi tutti i vecchi manufatti
rurali ancora esistenti, non proprio in buono stato e abbandonati.
Mentre da una parte ero emozionato nell’ammirare la loro struttura
architettonica realizzata con l’uso di conci di pietra locale,
dall’altra ne constatavo amaramente il degrado generale dovuto
all’abbandono e al vandalismo speculativo del materiale lapideo.
Una delle masserie più importanti del passato, denominata
Gallinaro, è l’unica ad essere stata recuperata e ristrutturata,
grazie al forte impegno della cooperativa giovanile “Nuova
Agricoltura” che, con il concorso regionale, vi ha realizzato
una confortevole Azienda agro-turistica e alberghiera
di un certo livello.
In occasione dell’inaugurazione di detta struttura, avvenuta
il 30 marzo del 1996 a ben 300 anni dall’erezione del manufatto,
ho relazionato circa le sue vicende storiche, di cui riporto uno
stralcio.
La casina rustica urbana fu costruita da don Donato Tiberi, feudatario
di Bitetto, Binetto, Carbonara, Mesagne, Erchie, ecc.
Nel 1735 il feudo di Bitetto passa in quello del principe Carmine
de Angelis di Mesagne.
Stante la prolungata morosità nell’estinguere i debiti
verso il fisco e creditori da parte di don Nicola Pappacoda, erede
del soprannominato principe, tutto il patrimonio feudale del Tiberi
e del de Angelis passa a disposizione della real Camera napoletana.
Quest’ultima, al fine di realizzare i crediti, autorizza la
vendita all’asta pubblica, col sistema della candela vergine,
del solo feudo di Bitetto (1738).
Il tribunale napoletano indice la gara, ma gli eredi del Tiberi
e del de Angelis si oppongono chiedendo che venga messo all’asta
tutto il patrimonio pervenuto loro.
La richiesta non viene accolta. La gara si svolge il 21 agosto 1739.
L’aggiudicazione è assegnata a don Francesco Noÿa,
residente in Spagna (Fiandre).
Il Feudo viene prima consegnato al cugino dell’aggiudicatario
Sante Lanoya, all’epoca residente in Bitetto in quanto esercita
le funzioni di Vicario del Vescovo Francesco Franco, e successivamente
consegnato a Sante Noÿa, arciprete di Mola (1741).
Il possesso del feudo da parte della famiglia Noÿa dura sino
alla emanazione della Legge napoleonica di abolizione di tutte le
feudalità (1806).
(Cfr. Archivio di Stato di Napoli. Sezione politica: volume n°
49 dei regij crediti, foglio 93 e seguenti).
Passata la bufera della pestilenza (1815-16), detta
struttura subisce delle modifiche.
Infatti, dal colofone in pietra, apposto sulla facciata dei locali
adibiti a stalla, si evincono tutte quelle fatte apportare all’originario
manufatto dal proprietario Sante Noÿa (1817).
Traduzione:
SANTE DE NOYA, FIGLIO DI FRANCESCO GUGLIELMO,
CAVALIERE DI GERUSALEMME DEL BARONATO DI BITETTO, PADRONE DI QUESTA
VILLA RUSTICA E URBANA, NELL’ANNO DELLA RICONQUISTATA SALUTE
1816, ESSENDO STATA NOJA SPOPOLATA E BRUCIATA PER LA RECRUDESCENZA
DELLA CRUDELE PESTE CHE PERDURAVA, FECE FARE (lett. curò
fosse fatta) QUESTA STALLA PER BUOI CON UNA PIACEVOLE TERRAZZA,
DELIZIA PER MUSE E PER L’INGHIRLANDATO APOLLO, PER PRENDERE
IL SOLE (durante la villeggiatura).
E NEL MESE LYDENEO DELL’ANNO SUCCESSIVO APPLICÒ QUESTO
COLOFONE.
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