INTRODUZIONE
Cerchiamo di ricostruire, mediante i personali ricordi, cosa avveniva
in paese nei primi decenni del ‘900, prima ancora della istituzione
della scuola materna dell’obbligo.
È con grande emozione che racconto quanto visto e vissuto
da ragazzino.
Quando la nonna e la mia genitrice non ce la facevano più
a sopportare le mie lagne, i capricci e i dispetti propri dell’età,
era il culetto il destinatario della dose più cara di sculacciate
(di solito con le mani, ma spesso con il battipanni) sino a divenire
rosso come quello di una particolare specie di scimmie. Tanto, non
per un certo opinabile sadismo, tipo Squirz (il tristemente noto
metodo d’educazione infantile inglese del XVIII secolo), ma
perché sin da piccoli imparassimo a rinunciare a quanto allora
non si poteva ottenere.
Ciò in ossequio alla formula educativa degli Avi tradotta
in ditterii, quali:” Mazz e panèll fà- c-n i
fìgghlie bell e “U f-nghàiò-n s’addrìzz
acquànn iè tìern” (Le botte e le carezze
fanno i figli belli = ubbidienti, buoni; e il rampollo cresce dritto
educandolo per bene quando è tenero = ragazzo). Quando, poi,
non se la sentivano di usare tale metodo, escogitavano quello di
condurci o farci condurre a casa di qualche parente stretto (in
particolare della nonna materna) perché ci sommistrasse una
buona dose d’ndrattìe-n (d’intrattenimento).
Ho potuto constatare come oggi le lagne e i dispettucci siano di
gran lunga aumentati per la presenza in casa di tantissimi oggetti,
che il cosiddetto progresso impone di avere (frigorifero, telefono,
televisore, ecc.). Nelle case più confortevoli, i corridoi
si prestano al gioco della palla. Non esclusa la competizione tra
famiglie benestanti e non, nel dare ai propri figlioli tutto quello
che oggi offre il consumismo.
Ai miei tempi, invece, nelle famiglie, specie in quelle più
numerose e in buone condizioni economiche, perché la mamma
potesse provvedere con un po’ di tranquillità ai pesanti
lavori domestici del tempo (in particolare a v-qu-t = il bucato),
il capo famiglia acconsentiva a condurre i bambini (dai 3 ai 5 anni)
dalle cosiddette “maestre in casa” (zitellone che vivevano
in famiglia o da sole; e per questo servizio alcune erano conosciute
in paese con lo pseudonimo di: a maiestr mamma - ma, o a maiestr
Cacucci, ecc.). Con dette maestre i bambini imparavano a pregare,
a recitare piccole poesie, a cantare delle piccole filastrocche
e a giocare con le cose più semplici.
Non poche emozioni mi provoca il ricordo di quanto visto avvenire
in Via S. Anna nel centro storico, dove la maestra Cacucci, zia
del compianto musicista prof. Michele Valerio, svolgeva la detta
attività.
La ricordo longilinea, alta più del normale, vestita di nero,
all’antica, che faceva paura ai più piccoli, menomata
ad una gamba ma molto forte nel tenere in pugno la vivacità
dei bambini.
La casa o stanza di trattenimento veniva subito dopo l’ingresso
al palazzo Crapuzzi. La palestra per i giochi all’aperto specie
nei mesi estivi era la strada, all’epoca libera da automobili
e motorini, perché il trattenimento durava tutto l’anno.
Mi immagino di rivedere dei bambini, vestiti con i variopinti pagliaccetti
e le pratiche pèttue-v per facilitare i bisogni corporali
(all’epoca non c’erano i moderni pannolini usa e getta),
giocare gioiosamente con le cose più semplici (pupa e pupazzetti
fatti di pezzi di stoffa), o seduti sulle chiancodd a parlare l’originale
dialetto, quasi incomprensibile. Una visione molto profonda che
sento rivivere nelle parole del Poeta: «…non v’è
maggior dolor che ricordarsi del tempo felice nella miseria».
Tra questi ricordi d’infanzia ci sono quelli vissuti da me
in prima persona durante gli anni in cui frequentavo le scuole elementari.
Molto spesso ero mandato dal farmacista don Virgilio Lagioia per
farmi avere “dìe-c léire d ’n-drattìe-n”
(= sosta). Ma quando i miei genitori s’accorsero che non avevo
mai ubbidito trovarono altre forme d’intrattenimento, come
quella di mandarmi da parenti sarti (Chidd du Nasào-n), che
avevano il laboratorio in Via Carmine, civico 67. In questo ambiente,
tra le varie cose, imparai a dare il u-sopra-man (orlatura) alla
stoffa dei pantaloni, trattenimento che lasciavo quasi subito perché
i giochi con i compagni (buoni e cattivi) facevano più presa
dell’imparare un ipotetico mestiere, intento precipuo dei
miei.
Ma presto, pur di non farmi frequentare i compagni, trovarono il
modo di occuparmi dapprima presso la sala da barba di “zu
Mingh” (zio Domenico, al secolo Domenico Mallardi, che aveva
appreso il mestiere di barbiere durante l’emigrazione in America),
con il compito di scacciare le mosche (all’epoca abbondanti)
davanti all’ingresso; poi, insofferente di tale mansione,
fui mandato come garzone nella bottega, a pochi metri da casa, del
carradore chiamato Giuànn u mèstr traièi-n,
che costruiva carretti piccoli e grandi per uso agricolo. Io lo
aiutavo principalmente nel far girare la mola per affilare l’ascia
e nella cerchiatura a caldo delle ruote di legno, per dare la “stretta”
(*) ecc. Inoltre, ho frequentato la bottega del fabbro Giovanni
Borracci in Via Palomba (meglio Malombra (attuale Via Nenni) e quella
del maniscalco Guardavaccaro in Via Incoronata.
Oggi sembra che per la maggior parte dei ragazzi il fine principale
sia quello di sapere parlare e scrivere in inglese, ignorando sia
l’idioma paesano sia quello italiano nella sua grammatica
e sintassi, entrambe di grande importanza ai tempi della nostra
formazione culturale scolastica (indiscussa maestra di vita).
D’altra parte, i genitori sono sempre più pressati
dalle richieste assurde dei propri figli, perché questi possano
gareggiare (scimmiottando) con gli altri circa i beni di largo consumo
dell’attuale civiltà industriale e informatizzata,
nell’aspirazione di divenire piccoli divi della televisione.
Infatti, tutti, anche i genitori insieme ai propri ragazzi, devono
essere computerizzati, internettizzati e globalizzati (novelli schiavi
del virtuale, del globalismo e della neo - colonizzazione inglese).
La realtà, però, è drammaticamente diversa:
il plebeo c’è e ci sarà sempre e ritengo che
esso sia il più appagato per come vive (non è utopia),
perché è libero come il vento che soffia in ogni direzione
e può amare tutto e tutti senza pregiudizi e preoccupazioni
d’ogni genere. Eppure costui è oggetto di fobici cervelli
di giovani satanizzati.
L’uso dell’”intrattenimento” al di fuori
delle mura domestiche continua tuttora sotto altre forme. Nel periodo
scolastico, per esempio i ragazzi, vengono mandati a fare i compiti
da parenti perché in casa non c’è (per impegni
di lavoro dei genitori) chi possa attendere a questo compito.
|